2×07

Trovarono parcheggio proprio di fronte al portone.
“Ci siamo”, disse suo marito.
Non avevano parlato per tutto il viaggio. Lei tacque ancora, tesa, gli occhi fissi sulla targhetta accanto a quel portone: “STUDIO DOTT. C.S. NOTAIO”.
“Sarà una cosa veloce”, continuò lui. “Entriamo, facciamo, usciamo”.
Le parole le restavano dentro. Se provavano a uscire, la tachicardia le ricacciava indietro, pulsazione dopo pulsazione, come detriti a cui le onde non lasciano toccare la riva. Aveva il mare in gola.
Chissà se era un pezzettino del suo mare. Il mare che l’aveva salutata col suo canto selvaggio mentre il traghetto la portava via, qualche anno prima. Quel mare che profumava di sale, di mirto e di rosmarino. Era stato solo qualche anno prima: quando, in quei pochi anni, avevano preso quella china? Quando le loro vite avevano iniziato a ruzzolare lungo quella discesa, sempre più precipitose, finché la frana era diventata inarrestabile? Finché si erano fermati davanti a quel portone?
Dal sedile del passeggero, la voce di M. la richiamò al presente.
“La segretaria lascerà l’ufficio a momenti,” disse, sistemadosi la pistola nei pantaloni. “Preparate i passamontagna.”

2×06

“Non nasconderti”.
“Come posso nascondermi?” pensò, paralizzato nelle lenzuola.
“Provando ad evitarmi”, pensò la creatura, fissandolo coi suoi occhi gialli. La luce di quegli occhi era la sola cosa visibile nel buio totale, ai piedi del letto.
“Chi sei?”
“Non mi riconosci?”.
Rifletté prima di rispondere. “No”.
“Guardami bene”.
“Non sei Illusione”.
“No”.”Sei un altro dei miei demoni?”
La creatura sorrise nel buio. Era un sorriso invisibile, che vibrava nell’aria.
“Dimmi chi sei,” insistette. “Sei Paura?”.
“No. Sono molto più potente di Paura”.
“Ti prego”. Stava per mettersi a piangere. “Dimmi chi sei”.
La voce della creatura gli echeggiò nella testa. “Il mio nome”, disse, “è Solitudine”.

2×05

“Obbligo o verità?”
“Verità.”
“Ma basta,” sbuffò C..
“Perché?”, chiese D., “Meglio verità, che obbligo!”
“Ma meglio cosa, che stai facendo le stesse domande da…”
“Dai D., muoviti”, tagliò corto F.. “Fagli ‘sta domanda”.
“Ok, ma se le mie domande non vanno bene, cosa chiedo?”
“‘Ma se le mie domande non vanno bene, cosa chiedo?'”, gli fece il verso C..
D. sospirò. “Allora, c’è qualcuno che ti pia…”
“Cambia,” lo interruppe F..
“Ma magari a lei va bene….”
“Non ce ne frega niente di cosa va bene a lei. Noi non vogliamo sentirla, ‘sta domanda, è la centoventesima volta che la fai. Cambia.”
D. strinse i denti. “Ok, ok. Il posto più strano dove…”
“No, cazzo!”, sbottò F., schiaffeggiandosi le cosce.
“Non puoi cambiare una domanda di merda con un’altra domanda di merda.”
“E allora falle tu, ‘ste cazzo di doman…”
F. non lo lasciò nemmeno finire. “Ok, senti qua,” disse tutto d’un fiato, puntando l’indice verso P.. “Dicci una cosa scabrosa che pensi ma che non hai mai detto ad alta voce. Una cosa veramente brutta. Lasciaci di merda. Sorprendici”.
P. li guardò tutti per un attimo. “Siete degli stronzi”.

2×04

Prima di scendere dall’auto si controllò un’ultima volta le unghie. Luccicavano come specchi di lacca rosa. Che strano, pensò: sembrava che le avessero attaccato le mani di un’altra. Era strano, sì, ma in modo bello. Perché l’altra a cui appartenevano quelle mani posticce era solo un’altra lei, più nuova, più bella. Più sicura. Più felice.Salì le scale con negli occhi una sé stessa improvvisamente possibile, futura ma non troppo, che sorrideva verso il tramonto, su una spiaggia. C’era musica. Gli amici ridevano con lei. Suo marito la guardava complice da sopra un bicchiere di vino. Lei ricambiava lo sguardo sensuale, vestito leggero, unghie laccate di rosa.“Lele? Sono a casa”. Aprì la porta sventolando verso il marito una delle sue nuove mani laccate. Lele era sul divano. Si teneva alla seduta come se avesse avuto paura di cadere. La guardò dalla testa ai piedi, come se non potesse credere che la persona che era appena entrata in casa fosse proprio sua moglie. “Hai visto?”. Lui continuava a fissarla, confuso.“Stasera usciamo, che dici?”, gli chiese lei andando verso il bagno. “No!”, gridò Lele. Lei si voltò, sorpresa. La porta del bagno si aprì di scatto, urtandola. Lei si voltò di nuovo. La loro vicina stava cercando di uscire dal bagno, in mutande.

2×03

Si appoggiò cautamente al balcone e tese l’orecchio. Era tutto vero. Capiva il linguaggio degli uccelli. Poteva origliare le loro piccole conversazioni cinguettanti, in cui si presentavano gli uni agli altri, discorrevano di vermi, di alberi e del tempo, descrivevano luoghi a lui familiari dalla loro prospettiva aerea. Era euforico. Il suo nuovo potere gli dava la vertigine di una distesa sterminata e inesplorata.
Si voltò e si piantò carponi di fronte alla cesta del gatto. Provò a stuzzicarlo per avere una reazione, ma il gatto sbadigliò soltanto. Allora lo punzecchiò ancora e stavolta i brontolii del suo micione tigrato risuonarono come parole nella sua testa. Impallidì. Nessuno aveva mai distrutto i suoi sentimenti con una ferocia così perfetta.

2 x 02

Non posso resistere ancora a lungo. Sono giorni che non passa nessuno e non so quando verrà qualcuno con del cibo o dell’acqua. Ho trovato qualcosa da bere sul fondo di una ciotola, ma temo che adesso non ci sia più nulla. Fa caldo. E l’odore. L’odore qui dentro si fa sempre più insopportabile.

Si sta riempiendo di mosche. Ho ingannato il tempo per un po’ dando loro la caccia ma adesso sono troppo stanco. Faccio fatica a muovermi e temo di aver mangiato qualcosa che mi ha intossicato. Se solo potessi mangiare le mosche. Le mosche. Le mosche no, ma…

Non so se ce la faccio. Anche se ormai sto già male e non cambia nulla. E farà schifo. Farà schifo da vomitare. Ma non devo vomitare. Devo cercare di non vomitare. Non è il momento di fare gli schizzinosi. Devo solo vincere lo schifo e l’odore. Non pensare. Ecco, così. Piano. Solo un boccone piccolo per adesso. Non pensare.

“Mio dio….signor Testa? C’è nessuno? Dio che puzza…ho paura che…signor Tes…. Oh Cristo! Cristo! Il cane! Il cane!”

2 x 01

Halima è seduta sul posto del passeggero, coi piedi scalzi sul sedile. Oltre il finestrino aperto scorre la notte torrida della Marmarica. C’è odore di polvere e piante secche.
Lui guarda la strada aprirsi davanti ai fanali dell’auto e di nascosto, con la coda dell’occhio, Halima. La luna disegna ombre azzurrine sulla sua pelle come sulla sabbia del deserto.
“Ce l’ho fatta”, dice Halima.
Lui risponde con un silenzio interrogativo.
“I soldi,” continua lei. “Sono riuscita a mettere insieme quelli che servono.”

Ancora silenzio, ma stavolta il respiro di lui è cambiato.
Halima si cerca le parole in bocca e le sceglie secche come la notte là fuori.
“Io vado, Adham. Ho deciso”.
Adham non risponde e non guarda più Halima con la coda dell’occhio.
“Non c’è niente per restare. Non c’è niente per nessuno. Perché non vieni anche tu?”.
Gli occhi di Adham sono fissi sulla strada. I suoi pensieri, molto lontani da lì.

Mio fratello viene con me,” continua lei. “Lo mando da nostra zia in Germania. Se ha fortuna ce la farà”.
Adham non parla, ma Halima sa che le sta chiedendo in silenzio cosa succede se suo fratello di fortuna non ne ha. Halima ha una risposta pronta, ma la ingoia.
Adham sa già qual è la risposta alla sua domanda. Sguardo fisso nella notte torrida. Continua a guidare.

Questa è la sala giochi della località balneare fantasma dove ho trascorso, più o meno, le prime dieci estati della mia vita. Da allora, la località fantasma è rimasta invariata in tutto: insegne e collocazione dei negozi, colore di case e balconi, odore di pizza, vecchie color cuoio. Sala giochi. Una bolla di 1991. Tranne che per un dettaglio.

Hanno levato E.T.. E.T. era una specie di giostrina che stava fuori dalla sala giochi, uno di quei cosi a forma di aereo o cavallino o pupazzo su cui siedi il bambino, infili la monetina e il coso fa una musichetta, va un po’ su e giù, un po’ avanti e indietro… Se ne vedono ancora in certi centri commerciali, per dire. Ecco, nella località fantasma c’era questa giostrina a forma di E.T. che è stata l’incubo del mio asilo insieme a suor Faustamelia. Come suor Faustamelia era un incubo ingiustificato, un ricettacolo privo di colpa delle mie pure ataviche, ma a tutto questo sono arrivata solo a elementari inoltrate. All’asilo mi terrorizzava e basta.

Fast forward, 2018 o limitrofi.Torno con mia mamma alla località fantasma. Dopo la spiaggia andiamo a farci una vasca nel 1991. Non ho mai vistato un villaggio abbandonato nel Far West, ma penso che la sensazione sia la stessa. Ci aggiriamo per un po’ tra gli espositori di infradito e i coccodrilli gonfiabili, poi, di colpo, eccolo lì. Invecchiato, ma ancora saldo nella sua meccanica possanza E.T., dito con lampadina integrata e tutto.

Ho dovuto. Capitemi, ho dovuto. Uno non può ritrovare il suo incubo d’infanzia dopo trent’anni e far finta di niente. Certi irrisolti vanno affrontati. Così ho messo giù la borsa. Mi sono avvicinata a quel coso orrendo. Ci sono salita. Non ci ho messo la monetina perché mi sembrava troppo, ma mia mamma ha potuto finalmente immortalarmi mentre vinco la mia paura di E.T., stessa sala giochi, stesso mare. Valuta diversa. Foto col telefono e non con la Canon di papà. Ma tant’è, E.T. 75 – me 1. Il gol della bandiera.

Fast forward. Ieri. Torno alla località fantasma. Mia mamma deve fermarsi al supermercato. Mentre la aspetto vado alla sala giochi, che è proprio lì accanto. E.T. non c’è più.


*MaleQuotidiano sta per tornare con una deprimente Stagione 2. Pick your own E.T. and get ready.*

14.

Le strinse lievemente la spalla. Si chinò quanto bastava per guardarla in viso: non era cambiato nulla. Lo sguardo di lei a ancora fisso su un altrove oltre la finestra, oltre la strada, oltre le case e oltre l’orizzonte.
“Perché devi farti del male in questo modo?” le disse, sforzandosi di sorridere e dandole un leggero scossone. “Capisci? Ti stai solo facendo del male”.
Lei non rispose. Non mosse un muscolo. Non batteva nemmeno le palpebre.
Lui sospirò. Le lasciò la spalla, abbandonando le mani sul bordo del letto. Chissà cosa scrutava la creatura accanto a lui, davanti a quegli occhi sbarrati. Chissà cosa stava pensando. Non riusciva a non chiederselo, perché il pensiero dei pensieri di lei lo inquietava. Ma ormai non poteva più farci nulla: era ora di andare.
“Se può in qualche modo farti stare meglio, sappi che credo davvero che tu stia solo ingigantendo tutto nella tua testa,” le disse ancora una volta, con voce ferma e tranquilla.
“Anzi,” aggiunse, infilandosi i pantaloni, “magari un giorno, ripensando a questo momento, ci riderai su”.

SCALA LEOPARDI PER LA MISURAZIONE DELL’INTENSITA’ DEL MALE DI VIVERE


*LIVELLO 10*
Descrizione: Male di vivere assoluto, invincibile e senza alcuna possibilità di scampo. La felicità esiste come solo come miraggio irraggiungibile non soltanto nella vita, ma anche dopo la morte, nei sogni e nelle più fervide fantasie (una cosa tipo il ghiandone di Scrat nel finale de L’Era Glaciale 2, ma con in più lo sterminio della famiglia di Scrat, la morte prematura del bradipo e l’estinzione di ogni forma di vita a seguito della glaciazione). L’esistenza è talmente insopportabile che verrebbe voglia di suicidarsi, se non fosse che non potremo suicidarci una seconda volta per sfuggire anche a ciò che di tremendo c’è nell’aldilà. Esempi pratici: Bruno Lauzi, le “Troiane” di Euripide, “Requiem For A Dream”, Eugenio Montale, Giovanni Verga, Victor Hugo

*LIVELLO 9*
Descrizione: Male di vivere inesorabile, impermeabile a qualsivoglia speranza o tentativo di resistenza, ma iscrivibile in un orizzonte di senso razionale. Tutta la vita è una grassa bugia, la felicità non esiste, ma c’è una ragione per questo nostro soffrire: un riscatto, una catarsi, un titanismo di fondo. Si vive male. Si muore peggio. Quindi cosa ce ne facciamo di un senso? Bella domanda, ma è sempre meglio del livello 10. Esempi pratici: Vincent Van Gogh, Sofocle, “Schindler’s List”, la storia polacca, “Black Mirror” (stagioni 1-3)

*LIVELLO 8*
Descrizione: Male di vivere profondo, fatalista ma al contempo sardonico o estetizzante. La vita fa schifo, ma è possibile fare dell’amara ironia su questa nostra miserabile condizione e anzi, ci si può trovare perfino qualcosa di poetico. E se c’è della poesia, significa che abbiamo almeno uno sfigatissimo cerino per farci largo tra le tenebre della vita. La morte è come il Natale: quando arriva, arriva. La felicità esiste, ma solo per gli altri. Esempi pratici: Giacomo Leopardi, Arthur Schopenhauer, “Anna Karenina”, “BoJack Horseman”, i Radiohead, “Il Grande Lebowski”

*LIVELLO 7*
Descrizione: Male di vivere sincero, ma piacione. La vita fa schifo – genuinamente schifo – ma c’è qualcosa che rende questo schifo affascinante. Quasi bello. La consapevolezza della nostra miseria diventa una copertina in cui crogiolarsi mentre fuori la gente muore e il mondo va a rotoli, possibilmente facendosi di droga e alcool come se non ci fosse un domani, scopando tantissimo e restando belli e tenebrosi anche quando si scivola sul proprio vomito. In altre parole: il male di vivere, quello mainstream. La morte è un sollievo o addirittura un plus. La felicità esiste, ma solo per gli stupidi. Esempi pratici: Baudelaire, Kurt Cobain, “Il Giovane Holden”, Ludovico Ariosto, gli Smiths, “Il Gladiatore”, Niccolò Machiavelli


*LIVELLO 6*
Descrizione: Il male di vivere ad uso della povera gente. La vita fa schifo, ma cosa vuoi, va a momenti. E comunque riesci a dimenticartelo per più di metà giornata. Di tanto in tanto il male di vivere si manifesta con squassanti epifanie della totale vacuità dell’esistere, poi si cambia canale, arriva il corriere di Amazon, lo shuffle di Spotify sceglie Cyndi Lauper e passa la paura. Del resto ci sono anche piccole cose per cui vale la pena alzarsi dal letto la mattina, no?. La morte fa parte della vita. La felicità probabilmente non esiste, ma abbiamo di che distrarci. Esempi pratici: Bob Dylan, “(500) Days Of Summer”, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Stephen King


*LIVELLO 5*
Descrizione: Male di vivere improprio. Non è proprio angoscia esistenziale, Ambrogio, è più che visualizza e non risponde. Sofferenza autentica, disperazione, senso di inutilità, anedonia e morte interiore ma legate ad un episodio, una persona, un momento che prima o poi sparirà dall’orizzonte come una nuvola nel cielo di aprile. Insomma: il classico periodo di merda. La felicità, o presunta tale, tornerà nella forma di una nuova fiamma. Per la morte c’è sempre tempo. Esempi pratici: Agostino d’Ippona, Adele, lo stilnovo in genere, “Grey’s Anatomy”


*LIVELLI 4-1*
Descrizione: Non c’è vero male di vivere, ma solo una gamma di disagi più o meno percepiti come tali, affrontati con un ottimismo più o meno ottuso. La felicità è davvero nelle piccole cose e la morte… qualcuno ha detto morte?Esempi pratici:- Livello 4: carta igienica finita, treno in ritardo, “ah ma Gramellini scrive ancora”, post medio di Selvaggia Lucarelli- Livello 3: biro scarica, caffè del distributore automatico, storia Instagram di Fedez- Livello 2: schizzo di dentifricio nel lavandino, pilucco sul maglione, Enrique Iglesias- Livello 1: unicorno che scoreggia arcobaleni, Teletubbies, Gio Evans


*LIVELLO 0*
Descrizione: Falso male di vivere. Subdola, infingarda contraffazione della pena di essere al mondo posta in essere nel più o meno consapevole tentativo di provare a sé stessi e agli altri di essere maledettamente in gamba. La felicità è darti il cinque da solo. La morte è già nel tuo immaginario, nella forma di un funerale con folla in lacrime, palloncini, fiori e lettere singhiozzanti in cui si ricorda che persona straordinaria tu fossi.
Esempi pratici: Diego Fusaro, “Il Piccolo Principe”